Note sull’autrice svedese Amelie Posse Brazdovà,
la più popolare delle scrittrici svedesi del ‘900.

La scrittrice (contessa) venne in Italia nel 1911, in esilio, per motivi politici legati alla sua famiglia. Nel maggio 1915 sposò a Roma il pittore boemo Oskar Brazda. Abitarono ad Alghero per quasi un anno, 1915/1916, forse su suggerimento di Grazia Deledda.

L’autrice scrisse il suo primo libro, dedicato ai dodici mesi trascorsi in Sardegna, nel 1931, durante la sua permanenza nel castello di Lickov, in Cecoslovacchia.

Tratto dal romanzo “INTERLUDIO DI SARDEGNA” di Amelie Posse Brazdovà
Titolo dell’edizione svedese: “L’incomparabile prigionia”.

Quando venne l’estate, ottenuto il permesso di spostarci liberamente, facemmo diverse escursioni sulle colline e sui monti intorno a Sassari. Una volta, a Osilo, fummo invitati a una merenda in casa di uno dei pezzi grossi del paese. Ci offrirono un vino pesante e inebriante, olive nere lucenti, formaggio pecorino affumicato fatto a forma di zucca. Mentre mangiavamo, uno della compagnia recitò una poesia che io mi trascrissi, era di Pompeo Calvia.

Dopo di che ci diedero un liquore d’arancia leggero e degli ottimi dolcetti di mandorla fatti con antichi spianados (stampini) in strane forme di animali e di esseri umani, come quelli delle cattedrali romaniche, e vari altri simboli che a me parvero in qualche modo sacri. Mi sembrava di fare sacrilegio a starmene lì a mangiarli, tentando di seguire le facezie che venivano dette in quello strano dialetto così diverso da paese a paese.
Il nostro imponente anfitrione dalla barba bianca indossava un panciotto di vellutto scuro, ricamato davanti e dietro come una trapunta, rigido e imbottito come una cotta di maglia, che gli fasciava il possente torace. Da sotto spuntavano le maniche di una camicia bianca ma, triste a dirsi, portava pantaloni lunghi e ordinari; e naturalmente l’immancabile berritta. In nostro onore la figlia si era messa il bellissimo costume da festa, gonna di velluto rosso con bande verticali di fili d’oro e un fascione di seta alto sessanta centimetri, ricamato a fiori, intorno all’orlo; in testa una specie di fazzoletto che le arrivava in vita, ricamato su fondo azzurro come il fascione di seta della gonna, e incrociato sul petto un fazzoletto di seta color fragola chiaro. Era di uno splendore incomparabile.
Due parenti nubili erano vestite nello stesso modo, ma non in maniera così ricca. Il paese era profondamente fiero dell’eleganza delle proprie figlie benestanti, e non avemmo il coraggio di confessare che ci piacevano di più le raffinate sottane nere di panno e le camicie bianche delle donne sposate e delle vedove.
Grazie alle amicizie locali visitammo tutte le principali case di quel pulito e affascinante paesetto. Guardammo tessere, tingere e piegare con strumenti primitivi i pesanti panni di lana.
Quando le donne sposate uscivano in strada usavano la rigida gonna a pieghe come mantella, tirandosela sulla testa in un modo che le faceva somigliare a campane ondeggianti. C’era qualcosa di sorprendentemente arabo nei loro profili olivastri, stagliati nettamente sui luminosi muri bianchi.