In quel giorno il villaggio di Osilo splendeva, per così dire, in tutta la sua bellezza alpestre. Quei fieri e robusti montanari, in vesti di gala, briosi, allegri, sollazzevoli, percorrevano con orgoglio il loro paese, che da ogni parte offre alla vista un gaio spettacolo. L’aria pura di quelle vette, il rumore delle scorrenti acque cristalline, quel vivace cicaleccio delle brigatelle che salgono i monti, e i piacevoli discorsi dei giovanotti arditi, che si preparano alla corsa con una gaiezza, un ardore indescrivibile, gli sguardi procacci delle belle montanine, danno qualcosa di fantastico a quella festa.
Le fanciulle di Osilo, la cui vista accresceva vaghezza a quel quadro cosi vago, alte, svelte, dai contorni mor­bidi e gentili, dagli occhi neri e magnetici, facevano, in quel giorno, pompa di tutti i loro vezzi. Vestivano il loro pittoresco costume, forse il più bello del Logudoro e dell’isola, con indicibile grazia e leggiadria. In mezzo a quella folla mareggiante, variegata, potevano ammi­rarsi le gonnelle scarlatte, lavorate di pieghe minute, uguali, ondeggianti ad ogni moto della persona, serrate alla vita sottile e spigliata, la cui estremità si adorna d’una gala di nastro rosa. Il giubbottino, parimenti scarlatto, con maniche sparate quanto è lungo il braccio, e adorno d’un ordine d’occhielli lavorati su gallone di fino argento e grossi bottoni a sonaglio, pure d’argento, lasciava ve­dere una camicia bianchissima, increspata, abbagliante; per ultimo un candido velo di batista, che partendo dal capo si rannoda sotto il mento, inquadrando quei volti, sorridenti del bel roseo della salute e della giovinezza, dentro una cornice trasparente e agitantesi mollemente a ogni blando soffio di brezza, dà una finitezza squisita a quel costurne.

Ma mentre mi son trattenuto in questa minuziosa descrizione, la folla si accalcava alle porte della chiesa. Un onda crescente di giovani contadini, pianigiani e montanari di quei pressi, un brulichìo, un urtarsi di zitelle e di spose; chiome nere, bionde, castane, veli, foggie cittadine o pae­sane, uno sfoggio inconsueto di vesti di gala, di collane d’oro, di ninnoli e gingilli d’ogni forma, abbagliavano la vista, senza che in quell’amalgama si potesse distinguere chicchessia.
La varietà dei colori di tanti costumi diversi, disegnantisi sopra il fondo opalino d’un cielo purissimo, irradiati dal sole splendido d’una serena giornata di giugno, faceva dolce meraviglia. Mano mano, pero, quella calca, dira­dandosi, si formava in capannelli di sei, di dieci; brigatelle allegre, gruppi di famiglie si sparpagliavano lungo il monte, preparavano una refezioncella; e tra costoro era frequente l’elemento cittadino. Tra il cicalìo ininterrotto, e tra le voci di chi andava e di chi veniva, tra le risa, i motteggi, s’udiva anche quella dei venditori di frutta, di dolciumi e derrate d’ogni maniera, che richiamava l’attenzione dei passanti sopra gli oggetti della loro modesta industria, o del loro piccolo traffico.
Le cerimonie religiose erano sul finire, e ad esse avrebbe tenuto dietro la corsa, e poi alla corsa il ballo. Lungi appena un trar di moschetto da quel vispo e geniale baccano, si poteva scorgero un giovane, dall’aspetto maschio e severo, osservare attentamente tra quei capannelli e quelle liete brigate, ascoltare ogni voce. Dai suoi occhi grandi e neri traspariva un pensiero malinconico.

 

Brano tratto da L’ALCAIDE DI LONGONE
romanzo di Carlo Brundo, pubblicato presso l’editore Simon (Cagliari) nel 1870.